“Percorrendoti al contrario, privilegiando il togliere all’aggiungere, zittendo le parole poetiche che rintoccano imperiose dalla tela (oh, certo, tu vorresti ben celarle dietro una criptica calligrafia, vuoi forgiarle nell’inesprimibile, ma esse si snodano sussurrando), resta il ritmo del tuo viaggiare. Lento e svagato, a tratti attentissimo e puntiglioso.
Il tuo percorso inizia dal quartiere e il traguardo è duplice, il primo – indimenticabile – l’opera, e il secondo, solamente tuo, il ricordo dei luoghi.
La tua verità risiede nell’inverno; l’estate ti riposa e accoglie i mesi della gestazione, in autunno passa attraverso la tua alta figura il respiro dell’arte, in inverno ricomincia il peregrinare della ricerca. Dalla Bovisa a Venezia a Lisbona, è sempre la foschia che ti accompagna, mentre tu, rabdomante e flâneur, le mani nelle tasche del giaccone e le due cagne accanto ai fianchi, plani nelle strade e nei vicoli del mondo con lo sguardo pronto a cogliere luccichii di allettante acciaio sotto la ruggine, forza di marmo al di là della polvere, genuinità di legno oltre il marciume. La miopia di novembre per te scioglie i sigilli dei tesori che ad altri sarebbero negati: il catrame freddo ti offre una seggiola spezzata, fra le radici di un bagolaro lunghissimi chiodi ancora emanano la torbiera che un tempo li aveva accolti, elaborate chiavi di castelli o di soffitte nei meandri di una discarica abusiva. Per te “l’arte è un mestiere piccolo” e umilmente raccogli gli oggetti screditati, gli inservibili, i ripudiati, gli orfani. Le mani ora negano le tasche e raccolgono.
Sono le tue mani – solitamente poco invadenti, rispettose, delicate, perse a disegnare sfere chiare nell’aria – a piegare poi i materiali più recalcitranti alla tua prorompente volontà di artista. Nel silenzioso inverno mentre viaggi fai, e il tuo nutrirti si specchia nella creazione, il tuo nutrirti è una linea di torsione tra il conventuale e il godimento, tra le volute verbali della Ortese e la pressa di Hrabal (avresti schiacciato anche le viole?). La materia viene ferita, bruciata, mozzata, divelta, liquefatta, e quindi rinata. Mescoli arditamente reperti di tempo al quotidiano, cera, vino, caffè, sabbia: nel tuo studio invaso di vita scaturisce una forma dai rigori classici.
Il viaggio sei tu.”
(Daniela Nicolò, 1996)
“Maria Cristina Galli è una figura particolare all’interno del panorama dell’arte italiana. Defilata, schiva, intenta al suo lavoro nello studio alla periferia nord della città, in una zona ex industriale.
Nel 2002 in una mostra al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano 1 la sua opera esposta, una grande scultura di ferro, formata da una pedana e da una serie di tubi di diversa lunghezza, posti in verticale, come le canne di un organo, è intitolata Coro per voce sola. L’ispirazione viene dal romanzo di Bohumil Hrabal Una solitudine troppo rumorosa. Galli è affascinata dalla figura del protagonista del romanzo, un impiegato che centellina parola per parole le migliaia di pagine dei libri che aspettano di andare al macero.
La scultura alla quale ha dato vita è una sorta di strumento musicale, di organo, appunto, per una sola voce. «Credo che tutto dovrebbe ruotare intorno ai valori e ai problemi dell’arte, mentre spesso sembra che il clamore dell’evento, gli investimenti economici o le assurde regole di mercato soffochino voci significative per privilegiare i rumori di fondo, spesso uniformati, oppure le urla dichiarate, che in fondo non dicono più nulla di nuovo»2. La sua è una voce fuori dal coro. Vuole arrivare al punto che ancora non si vede e che cambia durante il cammino quotidiano tra attese, proposte, studi e riflessioni. L’arte è lo strumento per attuare l’utopia che consente di volgere lo sguardo avanti a sé tenendo tuttavia presente quello che è stato.
Quella di Galli potrebbe apparire come una ricerca profondamente ancorata alla tradizione dell’arte, che si pone tuttavia come una risposta, personale, a certa maniera, a una febbre avanguardistica sempre più sterile.
Il suo essere artista va oltre il tempo e il luogo in cui vive, è qualcosa di più intenso e profondo che si pone al di là delle attuali circostanze, delle contingenze di un tempo complesso come il nostro. Un tempo che produce grande banalità, consumismo artistico a dismisura, ma anche figure straordinarie, in grado di superare di reinventare persino i mezzi dell’arte 3: da William Kentridge, a Janet Cardiff, a Rachel Whiteread, a Doris Salcedo e numerosi altri.
Galli lavora, come lei stessa dichiara, in un’aurea solitudine, affascinata perlopiù da quanto accade in sottotono, capace di ascoltare le voci remote e recondite di un presente di clamori. Si muove lentamente, osserva il suo circostante e non solo. Il suo è piacere dello sguardo, dell’incanto, una voglia di impossessarsi delle cose.
Quando si dedica un volume monografico a un artista pare di attribuire una dimensione di immobilità definitiva, quasi a volere segnare per sempre le cose, ma qui non è così: Maria Cristina Galli ha quarant’anni e è in una fase piena della sua ricerca. Alle prese con il mestiere dell’arte, con le sue dinamiche, con il suo fare. Lei che ogni giorno, cerca di scoprire, di conoscere il mondo perlopiù attraverso il disegno, quello anatomico, che è anche la sua professione 4. L’anatomia le ha dato la disciplina, così come l’incisione le ha insegnato a scandire il tempo del fare, il rispetto del lavoro. Ma anche attraverso il disegno in senso più ampio: appunto, segno, traccia fenomenica e esistenziale. E quindi la scrittura. Il segno è uno strumento per esplorare. Non è, cioè, il segno un significante, ma è attraverso il segno che, per traslazione, il significato è attribuito alla materia. Spesso nel lavoro di Galli è presente la scrittura non solo come codice ma anche come testo. Un testo grafico che ha anche una valenza semiotica e si fa disegno nella sua apparenza fenomenica.
La poesia e la letteratura sono sempre state per lei un rifugio, uno stimolo non solo per il lavoro. Un modo di porsi. Molti dei suoi lavori nascono da suggestioni letterarie: dal verso di un poeta, da una frase incrociata magari per caso in un testo, che diviene pretesto di riflessione.
Per lei la scrittura è segno, ma soprattutto disegno, legato a una sensazione, a un attimo: memorizzazione dell’evento. Galli non narra un storia, semplicemente tenta di ricostruire e ci riesce la sensazione degli attimi.
Nel suo lavoro è la ricerca della pittura senza la pittura in senso stretto. La scultura è data dalla tridimensionalità delle opere in cui presenze importanti sono gli oggetti. Oggetti che Galli ama, che qualche volta cerca ma più spesso incontra, investita dal loro sapore, dal loro odore, dal loro brusìo sordo e che costituiscono l’essenza della sua ricerca
Nei lavori degli anni Novanta, alcuni di grandi dimensioni, tecnicamente compositi, le citazioni erano più dirette, oggi sono sempre più celate, frammenti all’interno dei diversi elementi che interagiscono nell’opera.
Lavori costituiti dal colore, da scarti di polaroid, dai materiali per l’incisione: il bitume, l’inchiostro, che si mescolano con i materiali del quotidiano: il vino, lo zucchero le diverse materie organiche. Nei primi anni alcuni lavori nascevano da una matrice di incisione che non sarebbe mai stata stampata, nel tentativo di cogliere e di salvare l’idea primigenia delle cose, il principio primo.
Oggi a maggior ragione la materia viene superata nella sua specificità per creare una coralità, costitutiva del lavoro. Non vi è da parte sua un crogiolarsi nella particolarità delle scelte. La sua è una pratica antica e ogni volta diversa in cui è la scoperta empirica dei diversi elementi e delle loro reazioni.
Prima ho fatto accenno alla lentezza. Il tempo nella sua ricerca occupa una posizione portante. Affascinata dagli scritti di Ernst Bloch, di Nina Berberova, di Aleksandr Puskin, dalle poesie di Salvatore Toma, di Dylan Thomas, di Marina Cvetaeva. Il tempo è qui dilatato e intenso, è un tempo che si deposita sulle cose e che lascia una traccia. Verrebbe spontaneo di fronte a questi lavori fare riferimento a una dimensione mnemonica, ma oggi “memoria” è un termine che è sulla bocca di tutti e si rischia di cadere in una sorta di conformismo culturale. Qui, tuttavia, si ricerca la memoria delle cose, quanto sta dentro di esse e l’artista è un testimone più che un depositario.
«La relazione con il tempo
Un risciacquo del cervello
Architetture inventate» 5.
Uno dei nuclei portanti del lavoro di Maria Cristina Galli è la ricerca sulla memoria personale, ma anche memoria di luoghi fisici e non, di situazioni. Nel suo lavoro ogni presenza è autonoma e allo stesso tempo finalizzata a un ruolo ben preciso, dove nulla è statico. Molte sono le presenze scovate nel suo personale deposito della memoria. E’ una caccia al frammento, al dettaglio da rivivere, rielaborare e quindi collocare nel lavoro.
Se i lavori degli anni Novanta erano più rivolti alla letteratura, alla scrittura in quelli più recenti, più materici, è determinante il ruolo, la dimensione dell’odore.
Ancora una volta il riferimento è al tempo, al passaggio, al mutamento, alla difficoltà di catturare, di conservare, all’utopia dell’eternità di cui spesso siamo malati. L’odore sottolinea la dimensione transeunte dell’esistenza terrena.
Alchimia della quotidianità in attesa del consumo, talvolta definitivo.
La lentezza dell’esecuzione, la capacità di attendere, come già detto, le viene dalla pratica dell’incisione, un mezzo che le è consono sino dagli anni della formazione e che ha utilizzato nel corso del tempo con grande passione.
Tra lei e il lavoro si instaura un rapporto paritetico, non vi è dominanza. Piuttosto una dimensione di ascolto. La sua ricerca non nasce da un’idea preconcetta, vi è la possibilità di costruzione in corso d’opera per dare vita alle differenze, al movimento.
Galli ama lasciarsi sorprendere, guidare dagli eventi.
Fondamentale il rapporto con la storia dell’arte, quella antica che ha studiato e che studia, ma anche quella più vicina a noi: Jannis Kounellis, l’Arte Povera, Nanni Valentini, Claudio Costa, Anne e Patrick Poirier. Un rapporto che si rinnova ogni giorno nella forza e nella vitalità dell’opera che si pone su un cammino diverso, non tanto di tradizione o di avanguardia quanto di capacità di collocarsi in una sorta di terza via, in cui passato e presente si pongono in un dialogo serrato per riuscire a dare un senso al futuro.”
(Angela Madesani, Sindoni quotidiane, 2007)
1 Si tratta di Utopie quotidiane, curata da chi scrive insieme a Vittorio Fagone, accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale.
2 M.C.Galli in un’intervista a chi scrive in A.Madesani, Maria Cristina Galli, Mazzotta, Milano, 2002.
3 Così nel recente saggio di Rosalind Krauss, Reinventare il medium Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005.
4 Dal 1992 è titolare di cattedra di Anatomia Artistica presso l’Accademia di Brera di Milano.
5 Si tratta di una nota di lavoro di Maria Cristina Galli.
“Parola e teatro
Quando la letteratura era per buona parte trasmessa oralmente, ascoltata e pertanto il volume era in mano a alcuni privilegiati, quando Agostino inventa la lettura silenziosa, e quando il libro inizia a essere uno strumento individuale di dialogo con l’autore, e quando diventa standard nella collana dell’editore, e quando il libro ti accompagna in tasca nei trasporti sui mezzi urbani,e quando compri all’edicola il giornale e insieme a esso l’appendice che altrimenti avresti trovato solo in libreria, e quando la tavoletta di cera anticipava il notes per più durevoli supporti, fossero il bronzo o il marmo; e quando la pergamena era materiale prezioso, al punto da essere riutilizzata raschiando il testo precedentemente manoscritto; e quando la carta e il carattere mobile trasformano l’uditore in lettore, la copia unica si trasforma in multiplo; e quando il libro viene affiancato dalla rivista periodica, agile e poco costosa a detta di Cesare Beccaria. Appunto: e quando il romanzo è scritto a puntate, in appendice al periodico; e quando l’uso, la cattiva qualità, l’incidente segnano in modo inequivocabile la pagina stampata; e quando i sedicesimi dovevano essere aperti col tagliacarte; e quando...
Leggendo frettolosamente le opere recenti di Maria Cristina Galli, dedicate in modo costante alla scrittura e ai suoi strumenti – non ho citato ma sono importanti le installazioni/macchine per la produzione di un testo ma costituiscono aperture non episodiche alla “messa in scena” della scrittura – anche tralasciando le fonti e le corrispondenze fra esse e il loro ritratto, mi accorgo che la sequenza, approssimativa certamente, delle tappe dello scrivere sia stato il primo moto reattivo, nel cercare appigli, citazioni, anche allusioni più o meno scoperte.
Sostanzialmente un lavoro sulla memoria, alla ricerca di un punto di contatto che possa rendere intelligente la storia, una ricognizione degli strumenti artificiali per rendere durevole il ricordare, appunto sulla scrittura e suoi sistemi di trasmissione: questo operando con strumenti e sistemi che hanno la medesima vocazione, almeno per chi interpreta l’opera plastica come luogo privilegiato della riflessione, del dialogo con se stesso e con i propri strumenti di lavoro, questa volta capaci di alludere a un altro campo del ricordare, appunto alla parola fissata .
Non so quanto in questo riflettere possa essere importante l’attuale comunicare per parole, fatto da una tastiera, ma se questa per la generazione che può leggere è ormai entrata nell’ordine del naturale, il caso che la sua manipolazione, più o meno abile e uniforme non abbia alcuna influenza sul risultato finale può essere una spinta non ultima a mettere in atto il lavoro recente di Galli. Appunto una messa in scena teatrale: anche quando gli esiti assumono le coordinate del quadro, il luogo del teatro e la sua attrezzatura intervengono come coordinate determinanti: la pagina proposta, a maggior ragione l’oggetto o l’ambiente, sono un palcoscenico dove materia, forme e colore agiscono come protagonisti dal ruolo variabile.
Insomma un luogo, dove si parla di ambiguità fra immagine e didascalia, fra macchia, illustrazione miniata e lacerto di testo applicato o riscritto sulla pagina già confezionata, dove la bassa leggibilità della calligrafia si coniuga con la natura oggettuale del “volume”, la sua consistenza plastica che contrasta con la convenzionale bidimensionalità della pagina, a volte costretta, in alcuni esiti, in una cornice che ne esalta il perimetro, vuoi invece riproposta nelle soluzioni plastiche più eccentriche perché lasciare una traccia è prioritario rispetto allo strumento adottato.
Rammentare il catalogo allargato e le diverse sensorialità sollecitate mi sembra sia il filo che unisce queste esplorazioni che recuperano, senza nostalgia ma con il desiderio di renderle vive, materie e figure di un passato artigianale, dove l’agire manualmente non ha senso nostalgico per una abilità scomparsa ma riscatto per una intelligenza che la produzione standard per necessità deve negare.
Allora il manufatto ha senso, e richiede un rispetto e un tempo di lettura adeguato a quelli della sua realizzazione: si tratta di una pretesa, di una condizione vincolante, ma, appartenendo all’universo del gratuito, ha un suo salutare fascino.”
(Alberto Veca, Milano, febbraio 2007)
“(…) Queste scritture, dunque, si nutrono di poesia ma diventano pura traccia visiva che non porta significati e neppure si affida alla loro memoria: sono scritture da osservare, di cui godere calamitando gli occhi dentro le sfioramento dei segni, il colore indeterminato delle macchie, il mistero indecifrabile di quel mondo di eventi visivi di cui la carta diventa dimora assoluta. Da sempre Galli ha un rapporto d’affezione con la carta, è testimone d’ogni suo trasalimento, delle infinite storie che che in essa si condensano attraverso le parole dette e le parole ascoltate, i colori vissuti e quelli anche solo sognati. Questa complicità deriva dall’esperienza incalcolabile dell’incisione, dai segreti di un mestiere che affronta opposte tensioni: il progetto della forme e la sua imprevedibile verità, il piacere del tatto e il rigore della mente, la perizia dei mezzi tecnici e l’abbandono agli effetti inconsueti. Labirintiche e ossessive, le scritture sono il punto di arrivo di un procedimento d’immedesimazione nel corpo della carta, sollecitata ad assorbire e lasciar filtrare solo ciò che è essenziale, a seguire con naturalezza il senso del tempo che lavora sulla pelle delle cose, rivelando segni reconditi e altre mutazioni. Bisogna entrare in sintonia con la materia per per poterne svelare gli umori interni, le qualità nascoste, i procedimenti che modificano la superficie e la rendono luogo di un colloquio ininterrotto tra segno e materia. L’atto di segnare la carta non nasce all’improvviso e neppure si risolve in una esecuzione immediata, ha bisogno di sedimentarsi, di avviare la sua avventura verso esiti sottili che si conquistano attraverso precisi movimenti che la amno asseconda. Infatti la manualità è una vera e propria esigenza di vivere l’arte dal punto di vista delle materie, dentro la loro energia nascosta, nel rivelarsi delle tracce: colori e inchiostri sono tramiti per i segni che entrano nella carta e la rinforzano, talvolta oscillano nel vuoto, pur trattenuti nella materia.
L’immaginazione agisce a tutti i livelli, ama la vertigine del bianco ma non rinuncia ai trattamenti speciali, alle stesure materiche, alle spugnature, alle stratificazioni, alle precisioni dell’immagine e ai suggerimenti del caso.
Tutto avviene nel ritmo della crescita, nell’evento irripetibile della visione che lentamente rivela il piacere della scrittura, una scrittura intesa come parola-immagine che torna su se stessa(…)”
(Claudio Cerritelli, Scritture, 2001)
“Su una figura che racconta, ed è essa stessa scrittura, lavora Maria Cristina Galli. Le sue sono figure lasciate come residui immaginativi di un percorso interiore, di un racconto nel quale una sua forte presenza le fa registrare il contatto, oserei dire emotivo, con la materia. Quest’ultima spesso diviene il presupposto di un viaggio a ritroso nel tempo delle sensazioni, nelle impreviste accensioni del tatto, generando quell’energia che le superfici, la pelle delle mani e quella della materia, sprigionano come stato emotivo e psicologico. Evidenza sono opere quali Made in Taiwan-Nepali hand made paper(1998) e, con una dichiarata accentuazione del valore immaginativo della materia grezza Se riconosco il libro delle Notti del 1998. L’artista lavora sul “viaggio”, sull’itinerario dell’essere, sulle sollecitazioni del proprio corpo nel quotidiano rapporto con l’universo delle cose e delle pulsioni. A tal proposito scrive :”Catturi un’idea, insegui quest’idea, la perdi, riprendi un’altra idea, perdi anche quella e così via, a volte una delle tue idee si sviluppa, si realizza, spesso attorno a te solo conquiste raggiunte a metà. Si diventa deboli, perché si riconosce la debolezza. Sotto pressione, esposti. Si diventa più forti, perché il lavoro lo esige”
Citando Pessoa, come prologo a un suo recente progetto, l’artista precisa :”Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”. E’ questa, forse, l’immagine che maggiormente chiarisce gli indirizzi di scelta del suo lavoro, di quel costante tendere a comprendere se stessa (come figura di un progetto etico) nell’articolazione dell’”evento” o del “fenomeno”. In Progetto per icona-il re delle brecce, opera del 1996, la composta articolazione degli spazi, strutturata da rettangoli bianchi e neri (ricordano le forme dei telai), altro non è che il luogo del suo corpo (figura) o, meglio, è la misura di uno spazio di necessità, quella città che, “pian piano – scrive ancora la Galli – si è concentrata tutta nel mio studio, è diventata il mio studio”.
Su questa linea si pongono anche i lavori realizzati in questi ultimi anni, penso soprattutto a Cinque luoghi per il Tempo, una tecnica mista realizzata con vari materiali d’uso, nella quale è maggiormente esplicito il desiderio di tendere ad un maggiore coinvolgimento del proprio spazio, inteso come figura della quotidianità. E’ uno spazio che Galli costruisce con elementi sottratti ad un repertorio di memoria duchampiana, senza però dare nessun risvolto oggettuale, senza, cioè, cedere alla deduzione del “ritrovamento” caro all’esperienza newdadaista.
L’artista disegna e costruisce uno spazio d’uso per il suo pensiero, un luogo, un territorio per la sua visibilità, in pratica, ove il fantasma dell’immaginario possa trovare un appiglio, un corpo e porsi in aperto dialogo con il presente. Il suo lavoro non è altro che quello di ordire punti, soggetti e presenze di un intimo racconto, seguendo le traiettorie tracciate da Francio Ponge in I piaceri della porta. A tal riguardo Calvino scriveva :”Ecco che una cosa indifferente e quasi amorfa come una porta rivela una ricchezza inaspettata; siamo tutt’un tratto felici di trovarci in un mondo pieno di porte da aprire e da chiudere”. Cristina Galli, nei suoi oggetti narrativi, prende le distanze da sofisticate tessiture concettuali: nel suo progetto v’è il desiderio di prendere un oggetto, un gesto dal registro quotidiano e spingerli al di là delle abusate abitudini percettive o, meglio avrebbe detto Calvino, descriverli “fuori d’ogni meccanismo verbale logorato dall’uso””.
(Massimo Bignardi, Insogenze del classico, 2001)
“La presenza della parola è un elemento costante nell’opera di Maria Cristina Galli. Sia essa citazione, parola ‘trovata’, brano di memoria o confessione personale, o anche solo gioco di parole, essa assume una posizione di rilievo nelle sue composizioni. Accanto ad essa è proprio il valore della costruzione, il desiderio di dare una forma strutturata alle cose, l’altro fattore che determina il senso e il peso fisico di lavori che si impongono per la loro presenza assertiva e nello stesso tempo enigmatica, interrogante. (…)
Tornando all’elemento più strettamente personale nella parola scritta come oggetto dell’opera di Maria Cristina Galli, altre sue realizzazioni, come Ho chiuso in un cerchio il libro della mia ossessione, confermano il grado di coinvolgimento soggettivo nella composizione del lavoro. In questo caso, le parole sono tracciate con il procedimento dell’acquaforte su una lastra circolare di ferro che include la sagoma in gesso di un libro. L’immagine vuole avere una forza, anche simbolica, immediata, suggerendo la necessità di un ricorso a motivi personali che non sono comunicabili, e che proprio nella circolarità della parola che ritorna su di sé sposta quasi a un livello alchemico il messaggio individuale. Frequente, nella sua opera, è appunto il ricorso a figure di sigilli, di porte impenetrabili, di libri chiusi, come per nascondere segreti. Il grado di prossimità suggerito dalla parola, che invita a leggere oltre che a guardare, e quindi a una possibilità di comunicazione diretta, viene negato, per via di un di stanziamento che è anch’esso essenziale all’opera dell’artista. Nella sua complessità, al di là dell’uso della parola e della parvenza di affinità che essa introduce, il quadro diventa schermo muto, parete che respinge e allontana, perché un’inusitata durezza lo qualifica come limite di separazione. (…)
I materiali usati contribuiscono chiaramente a tale livello di comprensione delle sue opere, dalle lastre di ferro e di acciaio, alle parti aggettanti in legno o ancora ferro, i plexiglass talvolta introdotti, fino all’ambizione più propriamente scultorea, dove maggiormente si instaura una relazione tra organico e solido, come nel progetto per un Giardino del tempo, dove un vaso posto al centro di una struttura in ferro è destinato a raccogliere gli umori di un giardino nel corso di alcune settimane, subendone le trasformazioni e i possibili segni di vita, morte e rigenerazione. In un altro caso la ‘scrittura’ nasce dal movimento naturale di una struttura in ferro con uno stilo che incide nella paraffina i segni del suo passaggio, quasi fosse il vento stesso a incidere sulla superficie il suo messaggio.
Dall’opera come schermo, parete o quadro, ecco che la Galli apre ad altre direzioni il suo intervento, che ha bisogno di una consistenza fisica, oggettuale, di ingombro anche. Il farsi corpo della parola e dell’immagine è qualcosa che porta su un piano di ossessione, quasi, perché quel sordo confronto con la parola diventa anche cieca presenza dell’immagine. Vi è una forte sensualità, penso, nel suo lavoro, non tanto perché ci riconduce ai sensi come tentazione e seduzione fisica, ma come relazione fra i diversi aspetti di una percezione che dal piano visivo passa a quello tattile per coinvolgere le diverse sensazioni con le quali ci poniamo di fronte alla realtà, per confermarci di essere vivi, di avere vissuto, di una vita che sta fuori e dentro le cose. (…)
L’arte, in fondo, per lei si identifica con la scrittura e con la sua funzione di mediazione e di lettura ‘altra’ della realtà, come dice in uno dei suoi scritti su questi argomenti:”L’arte è scrittura in quanto espressione di un divenire, di un possibile. Anche quando questi necessariamente vengano oggettivati, l’ambiguità tra oggettivazione e apparenza si costituisce in un come se (…)””.
(Francesco Tedeschi, Titolo, 2000)
“Palcoscenico della memoria
Stanno come personaggi di Senofonte. Hanno militato e hanno fatto ritorno. La dignità li ha ricondotti ed ora li regge oltre il peso affranto da logorio e fatica.
Sono cose , eppure appaiono eroi di storie lontane, ritrovati, recuperati e salvi dal naufragio nel tempo. Sono le cose di casa, di studio, personaggi e non simulacri di Maria Cristina Galli.
Vivono, non addobbano. Non sopravvivono ma esistono. Lei ha restituito indole e anima.
Muti come sono gli oggetti, testimoniano tuttavia e narrano. Traccia di passato, fili di civiltà frettolosamente annebbiata, presenze trascorse, lontane e diverse da inanimata stasi.
Erano e non sono ma sono oggi altro. Destinati all’estinzione, estromessi dal meccanismo del quotidiano e del sociale, sono stati riammessi e ricompresi. Quasi domandare a un anziano il racconto della vita e imparare a capire il mondo come era ieri e sarà forse domani.
Brani di vicende vissute, verità memorabili ma generalmente eluse. Invece lì si riappropriano di luogo, senso e identità. Stanno beatamente e sembrano sorridere. Un museo li conserverebbe nell’anonimato di generica didascalia, forse una teca e aria stanca. Privati dello spirito, di qualsiasi voglia, di capacità di colloquio. Invece osservano, partecipano e suggeriscono
Alludono a un territorio ma non chiudono il perimetro. Altro è lo spazio, fuori e ovunque.
Loro vengono dall’esterno ma sono capaci di grande introspezione. Lo stesso sguardo acuto, pur dissimulato da profonda dolcezza, che Maria Cristina Galli indirizza alla società inebriata nel consumo, fiera dell’innovazione e immemore delle radici.
Nell’epoca del trionfo del lifting, lei recupera il passato, lo apre come scrigno e ne ritrova la bellezza. Quel passato prossimo, ancora radicato in leggibile genetica, non lontano tanto da incarnare anacronistica nostalgia ma vicino e partecipe del comune divenire.
Ora l’innovazione spazza il passato. Lo spezza, lo annulla. La definiscono globale per sottintendere necessaria, totale, assoluta. Il dissenso è peggio di una colpa, costa l’estromissione e la periferia è già un lusso. La cosa, l’oggetto e sovente la vicenda umana precipitano nello scarto, annullando il senso di mappa del singolo cammino.
Il ricordo, la memoria, la suggestione del possesso dell’interiorità non valgono più se non come compassionevole malinconica reminescenza. Conta invece l’esteriorità, la corrispondenza al dettato dalla celluloide, agli archetipi della comunicazione, all’approccio dell’apparenza.
All’opposto sta l’essenza. E’ l’altra riva del fiume e non si creda in ombra crepuscolare. Le cose, i segni, le testimonianze del tempo non necessariamente dipingono un piccolo mondo antico in antitesi reazionaria all’evoluzione sociale.
Di quella evoluzione sono invece traccia, documento di civiltà.
Il lavoro di Maria Cristina Galli spazia all’orizzonte della riflessione. Senza toni lancinanti di denuncia, senza nemmeno palesare concessiva introspezione d’ordine privato, la sua attenzione volge alla comune attitudine nel nostro tempo, alla generica frenesia del superamento di un passato che non è indegno anzi, semplicemente nostro. E come tale racconta e vale perché è la linfa da cui proveniamo. Ma il dovere dell’apparire induce a negare l’essere stati.
Maria Cristina Galli è una metafora: sembra recuperare l’oggetto e invece riabilita l’uomo. Lo riconduce alla storia, al tempo, alla memoria. Lo riporta a casa, perché si era perso.
Legno, ferro e fatica tornano valori primari. Nelle stanze affollate del suo studio riappaiono immagini dimenticate, si accendono improvvise evocazioni, risuonano meditazione e poesia.
Un impegno intenso, ribadito negli anni.
Per lei, appassionata di anatomia, è anche anatomia dell’umanità.”
(Claudio Rizzi, 2007)
“(…) L’uniformità dei giorni è talvolta interrotta da evocazioni concretatesi in virtù della forza centripeta di un’affinità elettiva. Sono le cose che circondano gli uomini ad assorbire e testimoniare le infinite esperienze individuali, nonché quei nodi del reticolo dei rapporti che si chiamano microstorie. Non di rado, il messaggio persiste con modalità che sfuggono ai superstiti e ancor più ai posteri. Diventa un caso raro che un oggetto, pur caricato dell’influsso positivo di azioni quotidiane, esplichi appieno le sue qualità evocative. Intanto, pochissimi manufatti sanno cercare –e trovare- le persone cui erano adatti. Tale preziosa circostanza può tuttavia persino ripetersi, grazie all’empatia di chi, avendo conosciuto il proprietario e le sue vicende esterne, riesca a inferirne il retaggio spirituale grazie ad uno strumento reso magico dalla consuetudine del lavoro. Secondo gli antropologi, un oggetto può indicarsi come amuleto, non soltanto perché di forma o nature insolite, ma perché il ritrovarlo ha costituito di per sé un evento sorprendente.
Un tagliere da cucina era stato promesso come dono semplice e vero da donna a donna, lungo le generazioni. L’improvvisa scomparsa dell’anziana signora che lo usava non ha impedito che esso giungesse alla destinataria, la quale lo ha fatalmente riconosciuto tra le suppellettili abbandonate. Che altri possano partecipare di una simile comunanza di sentimenti da due sponde dell’esistenza dipende dalle capacità del superstite di richiamare e perpetuare il senso del mistero attraversato. E’ successo così a Maria Cristina Galli, che ha coniugato la calda e chiara superficie del legno del prodigioso pegno d’affetto con una fredda e scura sagoma metallica, residuo a sua volta di chissà quali lamiere. E’ la scrittura a definire l’intervento, contribuendo in maniera decisiva ad affrancarlo dall’indeterminatezza: il messaggio di Una sola parola appesa a un ricordo è dipinto in rosso, il colore del sangue, della carne e della passione. Dalle mansioni domestiche, oltre riti comunque prevedibili, l’energia poetica è trasmigrata nell’arte. L’opera contiene al centro un cuore nuovamente vivo, un cuore che si incardina nascosto dove memoria e morte pulsano, senza sentimentalismi, nel presente.”.
(Antonio Musiari, L’oggetto apotropaico dalla formula al talismano, 1999)
“(…) Su un altro versante, per l’utilizzo delle tecniche e dei materiali, si pone la ricerca pittorica di Maria Cristina Galli, incisore oltre che pittrice, titolare nonostante la giovane età, della cattedra di Anatomia Artistica a Brera. Una ricerca che anche nella Galli vive come continua indagine entro il perimetro di uno spazio di esistenza che l’artista affronta riprendendo quelli che sono i medium propri alle tecniche dell’incisione sempre praticata. E in particolare il segno, un segno-scrittura già costantemente presente nelle sue lastre, a trovare posto su queste superfici, supporti di juta grezza recuperati e sottratti alla loro funzione di contenitori per trasporto merci. Su di essi l’artista mette in essere un gioco metalinguistica che sfrutta le scritte della stampa industriale riproponendole in una sorta di specularità dove la parola, come segno tangibile di una presenza, diventa niente altro che un mezzo per comunicare. E’ quanto si ritrova in lavori come Fragile I break easily treat me gently, Nepali hand made paper, Birdsong jumbo peanuts, tecniche miste tutte appartenenti al corso di quest’anno dove, sarei tentata a dire, la Galli opera un processo di ribaltamento sobillata da quel tanto di dichiarato che una matrice come il sacco di juta le offre. Voglio dire che quanto di occulto l’acido sottrae alla cera disvelando, nelle sue incisioni, quel messaggio fatto di segni-scrittura, di immagini affioranti da uno spazio interiore, l’artista lo trova qui, scoperto nei segni, nelle parole significanti di questi supporti. Non le resta allora che assumerlo svuotando le parole di significato per riaffermarle e riproporle attraverso un gesto che è essenzialmente testimonianza del proprio esserci (…)”.
(Ada Patrizia Fiorillo, Premio Dicillo, 1996)
“Uno dei nuclei portanti del lavoro di Maria Cristina Galli è la ricerca sulla memoria. Memoria personale, ma anche memoria di luoghi fisici e non, di situazioni. Nel suo lavoro ogni presenza è autonoma e allo stesso tempo finalizzata a un ruolo ben preciso, dove nulla è statico. Le tecniche utilizzate sono molte: pittura, scultura, fotografia, incisione, disegno. Nessuna, tuttavia, prevale sulle altre. Si tratta di mezzi e la Galli li usa come tali, attendendo paziente alle sue opere che crescono di giorno in giorno più per via di levare che per via di aggiungere.. Molte sono le presenze scovate nel suo personale deposito della memoria. E’ una caccia al frammento, al dettaglio da rivivere, rielaborare e quindi collocare nel lavoro.
Un posto a parte, di grande rilievo, è occupato dalla scrittura, che negli ultimi lavori, sempre più, tende a ridurre la sua presenza fisica, ma non quella concettuale. Scrittura che è segno, ma soprattutto disegno, legato a una sensazione, a un attimo: memorizzazione dell’evento.
Nel suo lavoro è la ricerca della pittura senza la pittura in senso stretto. La scultura è data dalla tridimensionalità delle opere in cui presenze importanti sono gli oggetti. Oggetti che la Galli ama, che qualche volta cerca ma più spesso incontra, investita dal loro sapore, dal loro odore, dal loro brusìo sordo e che costituiscono l’essenza della sua ricerca”.
(Angela Madesani, Periscopio, 2000)
"Nella voce leggera, nell’inflessione tra svagatezza e sogno, si direbbe approdata da una costellazione del fantastico.
La vivacità espressiva e la profondità dello sguardo delineano invece una dimensione di forte concretezza. Rimane l’idea della nuvola come quinta scenografica ma appare immediato il radicamento alla realtà di Maria Cristina Galli.
Il suo lavoro spazia nei materiali e nel linguaggio, diviene persino inverosimile o allegro nelle didascalie quando specifica fieno, macchina per produrre zucchero, stipo di pronto soccorso.
Spazia soprattutto in verticale, si tuffa nel tempo, si abbevera alle fonti di epoche lontane.
Appassionata di letteratura, riscontra nella scrittura un motore della storia. In forma di epistola, di trattato, di documento. Ne sono testimoni i libri raccolti in quantità e i suoi scritti copiosi, prodotti per divenire parte integrante delle sue opere, iscrizione di immediata evidenza oppure contenuto celato nella preziosità del mistero.
I colori accendono suggestioni d’antico, tempo sommerso e ritrovato, vicende del passato che si rinnovano nel corso di umanità.
Manca la figura ma si avverte la presenza di chi ha testimoniato luoghi e gesta o sentimenti e passioni. Si percepisce come evanescente incombenza, come respiro di vicinanza.
Cristina Galli, all’Accademia di Brera, insegna anatomia, materia di legame forte quanto la letteratura e le tecniche di incisione. Un rapporto fondato negli anni della formazione, elaborato in decine e centinaia di tavole eseguite per studio e puro piacere.
Una domanda che frequentemente le viene posta sottolinea l’assenza anatomica nei suoi lavori. In realtà, benché il quesito sia all’apparenza evidente e lecito, non del tutto corrisponde al vero. Letteralmente, il termine intende lo studio della forma e della struttura di un corpo e nelle opere di Galli ogni parte, ogni porzione del complesso vive nell’equilibrio di pesi e misure, toni e rapporti.Non esiste un nervo scoperto come non si ritrova una massa amorfa. I particolari concorrono in complementarità a generare il tutto e l’armonia che ne deriva si può definire anatomia del lavoro.
D’altronde il suo mondo allude sempre alla vita e alla pulsazione di emotività. Anche il recupero di vecchi oggetti desueti, di cose dimenticate e apparentemente inerti, verte a rigenerare in altra forma e a restituire nuova dignità. Per questo Cristina Galli raccoglie, conserva e ammassa gli oggetti più disparati, immagini e intuizioni percepite a prima vista, istantanee del divenire nella metamorfosi della memoria.Ingombrano o allietano lo studio, dipende dall’angolo di valutazione. Rappresentano comunque un patrimonio di sensazioni iniziali e di idee maturate. Uno spartito di dialogo qualora calasse un velo di solitudine e non regnasse la consueta cordialità sorridente e calorosa. Colloquio spontaneo animato dalla fiducia verso il prossimo. Una disposizione d’animo che le permette passeggiate serali coi suoi cani nel vecchio quartiere operaio intorno a casa, che lei sente suo, ove trova radici dunque passione.Normale, dai tratti della persona, che abbia costruttivo rapporto dialettico con gli studenti, come fosse una di loro, semmai fuoricorso.
Sintonizzare le frequenze non è difficile, giovano lo sguardo aperto e il sorriso di vicinanza.
E se permane l’idea della nuvola, la sensazione di fantastico e di fiabesco, è un bene per tutti."(Claudio Rizzi, Luci della ribalta, 2009)
(…)
“Il segno è ricco di implicazioni nel lavoro di Maria Cristina Galli, che ha una formazione di incisore. Si tratta di uno strumento per esplorare. Non è, cioè, il segno un significante, ma è attraverso il segno che, per traslazione, il significato è attribuito alla materia. Spesso nel lavoro della Galli è presente la scrittura non solo come codice ma anche come testo. Un testo grafico che ha anche una valenza semiotica e si fa disegno nella sua apparenza fenomenica. Il testo scritto riesce a rendere puntuale il silenzio miracoloso dalla parola attraverso una convenzione grafica e allo stesso tempo spirituale. La Galli ama la scrittura visionaria, in grado di trasportare, di spostare animi e cose, come l’Aleph di Jorge Luis Borges. Il suo è un lavoro artistico con forti implicazioni letterarie, imprescindibili legami con la cultura scritta che diviene spesso oggetto di analisi. Nel suo lavoro si legge l’orrere per la monotonia, per lo struggimento, per la distanza incolmabile fra le persone e le cose. Le lettere non servono solo a comporre le parole proprio come proponeva Barthes. Posizione la sua al di là di mode passeggere e tendenze di attualità. Dove l’attualità è perlopiù costituita da un mondo di di comunicazione inutile, frettolosa e vociante, ancorata alla vacuità dei suoi significati. Tra le sue ricerche più interessanti in questo senso quelle relative agli scritti di Pessoa. Penso in particolare al lavoro intitolato 23.6.1932. Attraverso il segno è anche un recupero di certa classicità, in cui la chiave di lettura è la semplicità, l’essenzialità dell’espressione. (…) Nella ricerca della Galli ogni veicolo è supporto di cose specifiche. Nel lavoro in mostra dal titolo L’arte è un mestiere piccolo è sottolineato il valore della fatica, del fare operoso. Dove l’oggetto ready-made è posto all’interno dell’opera in una commistione intrigante tra significato, inteso come rimando semantico e presenza effettiva dell’oggetto nel lavoro. La Galli non narra la storia, semplicemente tenta di restituire, e ci riesce, la sensazione degli attimi.
(Angela Madesani, Sindoni, 2000)
“Un’oasi di poesia e di raffinatezza ci salva dall’approssimazione e dal cattivo gusto di molta arte contemporanea. L’oasi è quella di Maria Cristina Galli, trentotto anni, nata a Milano, dove vive e lavora e dove presenta in questi giorni, alla galleria Spaziotemporaneo, una serie di opere recenti.
Non quadri, non sculture, neppure installazioni. Semplicemente carte. Spesse, ruvide, sottili o velate. Prese singolarmente oppure sovrapposte, a volte accatastate, compresse, incollate fra loro. E poi scritte, bruciate, dipinte, smaltate; lacerate, da piccoli strappi, macchiate da gocce d’acqua o increspate da grinze di colore.
Viene da pensare alle pagine sparse di un diario smembrato, di un racconto quotidiano, fatto di frasi scritte di getto e brani rubati alle letture predilette. Le parole, annotate in punta di penna, con una grafia preziosa e antica, si sciolgono in armonie di linee e solo in alcuni casi è possibile cogliere tracce di pensieri:”Per oggi e per sempre”, “là, dove si dispiega”,”voci”,”pietre”. Sono brandelli di memoria o frasi di poeti amati. Uno fra tutti, il salentino Salvatore Toma, al cui Canzoniere della Morte Cristina ha dedicato parte degli ultimi lavori. Come gli ingranaggi fragili dove i suoi fogli di appunti volanti sono catturati da minuscole presse, imbrigliati da argani arrugginiti, custoditi all’interno di vecchie caselle della posta. Pensieri ‘imbottigliati’ quasi fossero aromi; essenze d’inchiostri e di vernici che hanno l’effetto di un déjà vu proustiano e un retrogusto dolce di nostalgia.
(Chiara Gatti, ‘La Repubblica’ del 16/04/2004 per la mostra Marginalia)
“(…) Riflessione metartistica è anche quella di Maria Cristina Galli, di cui è in mostra Coro per voce sola del 2002. Una scultura che trae ispirazione dalle pagine del romanzo di Bohumil Hrabal Una solitudine troppo rumorosa. Il protagonista del libro è un impiegato che si occupa delle presse in un luogo atto al macero dei libri, che suo malgrado diviene una persona colta: beve, centellina parola per parola quelle pagine stampate che a poco a poco entrano nel suo corpo come una droga. Galli è affascinata da tutto questo, lei che si è fatta totalmente investire dall’arte forse suo malgrado. La sua è una voce fuori dal coro, dalle mode artistiche, al di là di tendenze e di gruppi. Galli canta da sola senza urlare. Vuole arrivare al punto che ancora non si vede e che cambia durante il cammino quotidiano tra attese, proposte, studi e riflessioni. L’arte in tal senso è lo strumento per attuare l’utopia, che consente di volgere lo sguardo avanti a sé tenendo tuttavia presente quello che è stato (…)”.
(Angela Madesani, Utopie Quotidiane, 2002)