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Alcuni testi pubblicati:
2024 - LA NATURA FATTA AD ARTE, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 29, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2024 - Maria Cristina Galli (edizione italiana a cura di) R. Osti-Anatomia artistica della figura umana in movimento, Piccin Nuova Libraria Editore, Padova, ISBN 978-88-299-3460-7
2023 - Maria Cristina Galli (edizione italiana a cura di) R. Osti-Fondamenti di Anatomia Artistica, Piccin Nuova Libraria Editore, Padova, ISBN 978-88-299-3365-5
2023 - SPETTRO DI BELLEZZA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 28, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2023 - IL CUORE DELLA MATERIA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 27, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2022 - RARA NATURA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 26, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2022 – ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA – FRA ARTE E SCIENZA, L’ANATOMIA ARTISTICA, in Il fascino di Palazzo Brera e la ricchezza dei saperi che custodisce, con Anna Mariani, Rubbettino Editore, Roma. ISBN: 978-88 498-73719
2021 - INDICAZIONI TEMPORALI SULLA PITTURA, in Inside Art, anno 17, Editoriale Inside Art Scarl, Roma
2021 - COME UN DIO CHE DORME, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 24, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2021 - UN'ANIMA DI CERA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, 23, anno X, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2019 - IL MARRONE È UN COLORE LENTO, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 22, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2019 - LA RIVINCITA DELLE HUMANITIES, in BRERA/Z, numero 1, Editoriale Domus, Milano.
2019 - L’INTELLIGENZA DELLA TECHNE, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 21, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2018 - IL GIARDINO DEL PENSIERO, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 20, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2016 - Tesi di dottorato: Galli, M.C. El libro de artista como lugar de pensamiento. Anatomías del proceso creativo. Granada: Universidad de Granada [http://hdl.handle.net/10481/42887], ISBN: 9788491255765.
2012 - ARTE COME RICERCA, SCIENZA COME CREAZIONE: IL TERRITORIO DELL’ANATOMIA ARTISTICA A BRERA TRA LE DUE GUERRE, in FIGURA UMANA - Concetti normativi e proporzionali della figura umana nell’arte e nella cultura visiva in Italia dal 1919 al 1939 – Atti del convegno, Michael Imhof Verlag, Petersberg, a cura di E. Leuschner.
2002 - L’IMMAGINE TOTALE, in Utopie quotidiane, Silvana Editoriale, Milano.
2000 - ANATOMIE CLASTIQUE - Lo spazio del corpo tra natura e techne, in Due secoli di Anatomia Artistica: dalla macchina corporea al corpo vissuto, Libri Scheiwiller, Milano.
1997 - UNA FINESTRA SULLE MANI, inCorrenti di marea I/97, rivista di Arte contemporanea, Gruppo78, Trieste-Brescia.
1996 - IL CANTO DI ORFEO, in Athanor - Il Mondo/Il Mare 7/1996, Istituto di Filosofia e Scienze del linguaggio, Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Università di Bari, Longo Editori, Ravenna.
1994 - CONCERTO GRANDE, in Athanor - Materia 5/1994, Istituto di Filosofia e Scienze del linguaggio, Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Università di Bari, Longo Editori, Ravenna.
2007 - Sindoni quotidiane, Galli Maria Cristina, Dalai Editore, EAN: 9788860731951.
2024 - LA NATURA FATTA AD ARTE, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 29, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2024 - Maria Cristina Galli (edizione italiana a cura di) R. Osti-Anatomia artistica della figura umana in movimento, Piccin Nuova Libraria Editore, Padova, ISBN 978-88-299-3460-7
2023 - Maria Cristina Galli (edizione italiana a cura di) R. Osti-Fondamenti di Anatomia Artistica, Piccin Nuova Libraria Editore, Padova, ISBN 978-88-299-3365-5
2023 - SPETTRO DI BELLEZZA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 28, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2023 - IL CUORE DELLA MATERIA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 27, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN 2037-1233
2022 - RARA NATURA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 26, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2022 – ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA – FRA ARTE E SCIENZA, L’ANATOMIA ARTISTICA, in Il fascino di Palazzo Brera e la ricchezza dei saperi che custodisce, con Anna Mariani, Rubbettino Editore, Roma. ISBN: 978-88 498-73719
2021 - INDICAZIONI TEMPORALI SULLA PITTURA, in Inside Art, anno 17, Editoriale Inside Art Scarl, Roma
2021 - COME UN DIO CHE DORME, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 24, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2021 - UN'ANIMA DI CERA, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, 23, anno X, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2019 - IL MARRONE È UN COLORE LENTO, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 22, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2019 - LA RIVINCITA DELLE HUMANITIES, in BRERA/Z, numero 1, Editoriale Domus, Milano.
2019 - L’INTELLIGENZA DELLA TECHNE, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 21, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2018 - IL GIARDINO DEL PENSIERO, in ARTAPP arte cultura nuovi appetiti, numero 20, anno IX, Edizioni Archos, Bergamo, ISSN: 2037-1233.
2016 - Tesi di dottorato: Galli, M.C. El libro de artista como lugar de pensamiento. Anatomías del proceso creativo. Granada: Universidad de Granada [http://hdl.handle.net/10481/42887], ISBN: 9788491255765.
2012 - ARTE COME RICERCA, SCIENZA COME CREAZIONE: IL TERRITORIO DELL’ANATOMIA ARTISTICA A BRERA TRA LE DUE GUERRE, in FIGURA UMANA - Concetti normativi e proporzionali della figura umana nell’arte e nella cultura visiva in Italia dal 1919 al 1939 – Atti del convegno, Michael Imhof Verlag, Petersberg, a cura di E. Leuschner.
2002 - L’IMMAGINE TOTALE, in Utopie quotidiane, Silvana Editoriale, Milano.
2000 - ANATOMIE CLASTIQUE - Lo spazio del corpo tra natura e techne, in Due secoli di Anatomia Artistica: dalla macchina corporea al corpo vissuto, Libri Scheiwiller, Milano.
1997 - UNA FINESTRA SULLE MANI, inCorrenti di marea I/97, rivista di Arte contemporanea, Gruppo78, Trieste-Brescia.
1996 - IL CANTO DI ORFEO, in Athanor - Il Mondo/Il Mare 7/1996, Istituto di Filosofia e Scienze del linguaggio, Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Università di Bari, Longo Editori, Ravenna.
1994 - CONCERTO GRANDE, in Athanor - Materia 5/1994, Istituto di Filosofia e Scienze del linguaggio, Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Università di Bari, Longo Editori, Ravenna.
2007 - Sindoni quotidiane, Galli Maria Cristina, Dalai Editore, EAN: 9788860731951.
(...) Io sono fondamentalmente una sfaticata. Sono capace di non dormire per tre notti di fila e non staccarmi da una lastra, da una scultura finché non è finita, ma non amo il lavoro quotidiano, quello che insomma, nella comune accezione, è considerato lavoro. Faccio la pittrice, faccio disegni. La pittura è una fatica, il disegno è una fatica. Ma che pochi conoscono, o comprendono. Non parlo del travaglio di ogni giorno, della maledizione di un cartellino e di orari codificati. Quella che intendo io è una fatica diversa, più lenta, molto più lenta. Perenne. Che accompagna ogni gesto, ogni immagine, ogni pensiero. Fare pittura è una fatica secolare.
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Anna Comino: Sindoni Quotidiane prende in considerazione una decina d'anni della tua produzione artistica. Perché sindoni e perché quotidiane?
Maria Cristina Galli: La sindone è simbolo per eccellenza del calco, dell'impronta, dell'oggetto che conserva la traccia, nello specifico di memoria storica. Ho spogliato questo concetto di tutte le valenze mistiche e religiose e ho cercato di tradurre a livello segnico il suo portato storico. Quotidiano perché mi interessa quella dimensione di lavoro giornaliero, di impegno costante e di dialogo quotidiano tra le esperienze legate alla vita reale e alla ricerca artistica.
Dalle tue opere emerge un lento lavoro di stratificazione.
È vero: quello che voglio trasmettere è la rappresentazione visiva della sovrapposizione continua e del deposito del tempo.
Come nella preparazione di una tela: prima c'è l'imprimitura, poi la stesura del colore, le velature...
Esatto. Impiego molto tempo per realizzare un lavoro, proprio perché non tutto è stabilito dall'inizio. Sperimentazione e anche casualità hanno un ruolo fondamentale nel mio fare. E poi ci sono i tempi d'attesa, di interscambio tra me e l'opera, fino al momento in cui si raggiunge la totale autonomia e indipendenza e alle parole si sostituiscono silenzi carichi di significato.
Ricorrendo a supporti che portano già delle tracce, cioè una sedimentazione in atto da tempo e non riconducibile a te, è corretto parlare di primo grado di stratificazione dell'opera?
Tele usate, rovinate, carte vecchie sono materiali molto stimolanti, che mi costringono ad adeguarmi a loro, a percorrere una strada che è già stata iniziata. Poi preferisco la carta perché assorbe molto il colore e fa corpo con la pittura, mentre la tela rimane supporto nella stesura dei pigmenti.
È qui che comincia il tuo lavoro di stratificazione "esterno" che va ad aggiungersi a quello "interno" proprio della materia prima che hai deciso di utilizzare?
Comincio a lavorare su questi materiali applicando una sovrapposizione di percezioni. Il mio immaginario riceve stimoli principalmente dalla parola scritta: ciò che leggo e mi colpisce viene visualizzato e tradotto nell'opera a livello grafico. In questo modo stratificazione interna ed esterna forniscono un doppio livello di lettura.
La parola nel tuo lavoro compare con il suo valore denotativo o connotativo?
Sicuramente connotativo. La suggestione emotiva che la parola genera a livello percettivo nel lettore, che poi sarei io, è ciò che ricerco, proprio perché i valori connotativi della parola riguardano la sfera soggettiva, intrecciandosi strettamente con le associazioni mentali che ognuno di noi costruisce.
Come scegli il codice con cui tradurre queste suggestioni?
Il segno grafico, la scrittura, è il codice. Il significato del testo ha importanza per me nel momento della lettura, ma non mi curo che risulti comprensibile una volta tradotto in segno. Anzi, spesso ricorro volontariamente ad errori di trascrizione, di sintassi, ma la cosa non è dichiarata affinché si crei una complicità solo mia con il testo.
Mi viene in mente Glosse senza codice, un tuo lavoro del 2003. Ponendo anche di riuscire a decifrare la scrittura, rimane l'impossibilità di capire note riferite ad un testo mancante.
Questo perché il mio interesse per la parola scritta è incentrato sulla sua rappresentazione grafica. Per me una parola conta quanto un segno, un colore: è mezzo d'espressione.
Nel caso di oggetti di recupero, gli objects trouvés, essi entrano con la loro tridimensionalità nella tua opera, dopo essere stati spogliati del loro vissuto.
Il mio utilizzo dell'oggetto non è certo assimilabile al ready made duchampiano. La presenza fisica dell'oggetto mi attrae per il suo portato "storico". Come la sindone è un simbolo della memoria, indipendentemente dalle implicazioni religiose, così l'oggetto porta tracce di chi l'ha posseduto, amato, utilizzato e infine anche scartato. È come se l'anima dell'oggetto, per entrare nella mia opera, fosse chiamata a nuova vita. È ovvio che, per fare ciò, lo decontestualizzo, ma solo questo, non ne snaturo l'essenza con un'operazione meramente concettuale.
Qual è lo scopo ultimo della tua opera?
Raggiungere la semplicità assoluta. Il che è difficilissimo.
Se si può fare un paragone con la scultura tradizionalmente intesa, ti senti più vicina ad un modo di lavorare "per via di porre" o "per forza di levare"?
Sicuramente al levare: il mio è un lavoro teso a togliere. Dopo una prima fase di accumulo, inizio a svuotare, a togliere il di più. Vorrei raggiungere l'essenzialità totale. Proprio come Licini, che alla fine ha trovato questo segno lirico, o Rothko che ha pulito tutto nel tentativo di rendere assoluta la pittura.
Il che significa che il percorso di genesi dell'opera non è lineare, ma soggetto a cadute, a ripensamenti?
La sperimentazione ha un ruolo portante nella mia opera. Le scoperte, molte delle quali accidentali, sono talmente piccole da risultare quasi insignificanti. Esse entrano a far parte del mio bagaglio di esperienze, per non uscirne mai più. Ho dedicato un'opera a questo travaglio interiore provocato dall'acquisizione del nuovo, dallo stupore della scoperta: si intitola L'arte è un mestiere piccolo. E la consapevolezza della conquista ti concede la libertà di scegliere come utilizzarla, al limite anche di privartene.
Anche se tu punti alla semplicità assoluta, molte delle tue opere presentano preziosismi calligrafici minuziosi. Come riesci a coniugare le due cose?
Quello che chiami preziosismo in realtà è un interesse per il dettaglio. La semplicità generale del lavoro consente di registrare il dettaglio solo dopo un'accurata visione. E a me piace questo lento scoprire, questo riportare alla superficie ciò che in realtà potrebbe restare seppellito nell'opera.
Un discorso analogo lo si può fare per le fotografie che compaiono nella monografia a te dedicata. Anche con quelle volevi evidenziare il dettaglio?
Sì. Solo che in questo caso gli ingrandimenti così mirati non servono tanto alla lettura dell'opera, quanto all'esemplificare del mio modo di guardare e di rapportarmi alle cose. Sono proprio io. Sfogliando il libro, mi sento soddisfatta perché mi rendo conto che il messaggio arriva.
Alla pubblicazione del libro seguirà una mostra?
Lavorare al libro è stato molto stimolante: mi è servito per riflettere sul mio lavoro precedente e per elaborare nuove soluzioni. Questa dimensione di ricerca sarà oggetto di una mostra alla galleria Spaziotemporaneo di Milano, e spunto per una serie di progetti ancora in via di definizione."
(Anna Comino, Intervista 9 ottobre 2007, SullArte.it)
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Dalla chitarra suoni come lamenti. Per ogni nota, dolore, pena rabbia. Quando suona John Lee tutto si ferma. Si, il silenzio che si sente quando John Lee canta un blues è religioso. Un silenzio denso come il carcere dell’anima. Non pensiate che sia paradossale se qualcuno vi dice che la musica si fa con il silenzio.
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Guardo il mio studio. Il suo caos. Il suo luridume appiccicato ai vetri, al pavimento, alle pareti cariche di fogli appesi alle puntine, pezzi di tela e ferro sparpagliati un po’ dovunque, mozziconi di sigaretta, libri consumati e sporchi di colore. L’odore della vernice e dei colori è a volte così forte che mi ubriaca, mi inebria, mi riempie di una gioia inconsulta, autentica. “…questo posto domani lo ripulisco…”, ma so già che rimanderò il problema. Mi piace, in fondo, questo disordine che qualcuno ha definito esistenziale, fa parte di me, è me.
La città è fuori, col suo brulichìo insensato. Il mio studio è la città intera.
(…) Passeggio per le vie del mio eremo, pieno ormai di promesse mancate, attaccate ai muri accanto e dentro i disegni, penso ai miei misfatti, al frammento di una preghiera infantile. Tutti i posti tacciono, ma questo posto appartiene a me. In questa città privata io conosco tutti i nomi delle cose, delle strade, delle piazze grandi come un brandello di carta, tutti i passi dei miei sogni, della mia immaginazione. Conosco il loro tempo, imparo il mio.
La desolazione di una città crudele, di un mondo sempre e comunque provinciale, dove tutti ti coprono di fango, dove tutti ti sorridono senza vederti…tu abbassi gli occhi sul tuo lavoro, lo tieni lontano dalla miseria, punti lo sguardo in modo leggero, ma inequivocabile, altrove. La luce si dissolve, si sgretola, la musica spezza loro il cuore e tu li hai sconfitti, per sempre.
Io sono la donna delle strade che non portano da nessuna parte. Sono l’innamorata di orizzonti che non raggiungo mai. Sono colei che non chiuderà mai tutte le porte. Sono la donna del silenzio, del freddo, dei serpenti addormentati. Sono colei che desidera. Il desiderio è nel fare e non si separa mai da esso, risorge indenne e si rilancia in ciò che conferisce al desiderio la sua capacità di resistenza: la mancanza. Nella mancanza è la gloria che ho sempre amato, che ho sempre tirato fuori dal suo nascondiglio, dietro alla mancanza c’è la mia voce. L’anima che ho e l’anima che non ho. Non si fa pittura per sentirsi dare dell’artista. Quella che generalmente la gente accetta perché inventata, è la realtà più vera di tutte, la realtà più vera del vero. La realtà di un’opera. (…)
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La pittura è il vero luogo d’incontro tra la solitudine e la quotidianità metropolitana. È dove ci si scambiano domande e risposte, dove si crede in qualcosa che ancora non esiste, in cui si costruisce con una serie di strumenti inventati il proprio poter-esserci. Questo è il posto in cui sono stata, in cui sono, dove ciò che è passato è mio. Dove ciò che è possibile è di tutto e di tutti. Ma mi appartiene. È in ogni respiro, in ogni sensazione, in ogni gesto che si deposita lento, furioso, disperato, cosciente sulla carta morbida, paziente. Sul ferro aspro, vivo. Sulla cera profumata, calda.
La vita è lì che aspetta. I volti, gli odori, il traffico, la quiete della sera, lo sporco, le luci, il grigio, le frenesie e le indifferenze, il fumo di una sigaretta, le sagome degli alberi e delle biciclette, gli spigoli dei muri, i cani che giocano, le note di un violino lontano, per caso… Lo spazio che è dentro e fuori di me si fa indefinito e assume il colore di una notte come questa, una come tante.
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L’altra notte sognavo. Sognavo una grande orchestra che eseguiva per me una sinfonia di Beethoven. La Nona. La mia preferita. La forza della sua musica mi travolgeva e non avevo orecchi che per quegli accordi sublimi che innalzano la condizione umana. L’esecuzione della sinfonia era tanto perfetta, tanto sentita, tanto coinvolgente, tanto potente nel suo insieme di note, da risultare più reale della stessa realtà. E mi restava dentro con la sua incredibile magia. Né Toscanini, né Bruno Walther, né Herbert von Karajan avrebbero mai avuto il talento sufficiente per dirigere così la nona sinfonia. Ma di una cosa ero sicura: chi la stava eseguendo aveva preso le doti migliori di tutti. Ho sempre pensato che ognuno di noi ha una propria musica nell’anima. Una musica personale, privata, confidenziale, che non è quella dei battiti del cuore, ma del temperamento del cuore. E il mio, modestamente, è un cuore beethoveniano.
Ci sono giornate come questa, fatte di gesti sempre ripetuti e sempre uguali, giornate cosiddette reali, che mi sembrano in realtà un incubo, che toglie ogni significato ai miei sensi. No. Non a tutti i sensi. A tutti meno uno. Perché il mio udito continua a registrare la vibrazione austera della sinfonia. Ci sono notti in cui il labirinto in cui precipita la nostra voce assume il rigore del nostro silenzio. E diventa una musica nuova, che dobbiamo imparare ad ascoltare.
E proprio adesso il coro inizia a intonare l’Inno alla Gioia, ed è come se non l’avessi mai sentito prima. A un tratto la sinfonia finisce, ma, come accade per le opere d’arte, il suo incantesimo si prolunga in un’eco lontana, un ritornello dolce, come le schegge di un sogno che tarda a dissolversi…
A volte le parole non servono a niente. Io le ho ascoltate, lette, scritte tante volte. Ma quando tutte le parole, assolutamente tutte, dicono le stesse cose, non servono più. Né a chi le dice, né a chi le deve ascoltare. Ci sono cose che vanno oltre le parole. Accarezzare un sogno e fare di esso la propria vita, inseguire il mistero di un amore per un lavoro che è una scelta quotidiana, precisa, ma che non conosciamo mai e che ancora non ci conosce, perché diventi il riflesso del nostro sguardo.
Imparare a credere nell’incredibile. Suonare, in punta di dita, il tempo del possibile. Renderlo udibile, senza parole, per chiunque abbia voglia di sentire. Il segreto per avere un orecchio musicale è riuscire a tacere.
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Neve.
Meno dodici. Di giorno, nel momento più caldo, con il sole che taglia le ombre sulla montagna in modo netto, assoluto, meno sei.
Aria tersa, buonissima. Se si potesse mangiare, bere, leccare quest’aria, nessun cuoco al mondo avrebbe più speranza.
Nove metri cubi di bianco da scolpire in tre giorni. Con questo freddo, con i piedi bagnati e le mani intorpidite, con un’accetta un martello una paletta, filo d’acciaio e seghe di ogni sorta, pezzi di ferro e muscoli. Una fatica improponibile, una sfida. Bella.
Ma io sto bene perché sono in montagna. In alto, dove si respira aria pulita, dove la natura è un po’ più forte di tutto il resto, e le basta starsene là, davanti agli occhi, per dimostrarlo. Non occorre altro, a chi sa di essere superiore, che esserci. Semplicemente.
Adesso sono stanca. Ho i polsi dolenti, le dita delle mani dure come bacchette, le spalle irrigidite; è dalle nove del mattino che tento di dare una forma, la mia forma, quella che ho dentro la testa, a questo cubo di neve ghiacciata. È difficile, più di quanto immaginassi, sembra di scolpire pietra. Solo che, se non fai attenzione, tutte le briciole che riesci a levare dalla massa, si riattaccano alla struttura ghiacciando ancora una volta, costringendoti a un doppio lavoro. Per cui devi sottrarre materia e buttarla via subito, toglierla dai piedi. Devi saper pulire. Devi procedere con ordine.
Io sto cercando di recuperare un po’ di me stessa.
Si evade da tante cose, da mille piccole, ostinate, crudeli prigioni quotidiane. Gabbie d’amore che sono nidi, che sono case, che sono voci e odori e sapori, che sono costruite sopra l’anima e che l’anima te la stracciano, appena te ne allontani.
Ci sono sentimenti lievi lievi, come neve che scivola giù dal cielo, che si posano sul cuore e lo proteggono per un poco, soffici e morbidi come un’illusione. Ché appena la vita scuote l’anima, si sbriciolano e svaporano lasciando tutto allo scoperto, col tremore di un istante.
Ma quello che ti segna sono le passioni dure come questi blocchi. Uguali molecole, differente consistenza. Neve con cui combatti, con cui ti misuri, col cuore ma anche con tutto il tuo corpo, con la testa e con i muscoli. Neve che fa male, che devi abbracciare ma anche colpire, che devi accarezzare, spezzare, modellare, ascoltare, capire, che ti può arrivare addosso come un sasso, che ti si infila dappertutto, che ti ghiaccia le mani e i piedi, che ti sembra impossibile portare con te nel raggiungere un’idea. Hai freddo ovunque, hai paura di non farcela. Maledici il momento in cui hai accettato questa sfida, un’impresa che supera ogni aspettativa. Metti a dormire il tuo corpo dolente e continui a scavare nel sonno. Continui a scavare anche il giorno dopo, fino a sera, fino a che fa buio, e comincia a piacerti da impazzire anche se vorresti piangere. Ti piace perché ci sei interamente, senza equivoci, senza bugie. Ci sei con tutto l’amore che sai. Che ti fa dire basta ma continui lo stesso, con l’ostinazione che ripesca le forze che neppure pensavi di avere.
Riconosci la lotta, riconosci i tuoi limiti, riconosci il privilegio di sentire così forte.
Quando tutto finisce, hai solo voglia di cominciare daccapo.
(Maria Cristina Galli)
(...) Io sono fondamentalmente una sfaticata. Sono capace di non dormire per tre notti di fila e non staccarmi da una lastra, da una scultura finché non è finita, ma non amo il lavoro quotidiano, quello che insomma, nella comune accezione, è considerato lavoro. Faccio la pittrice, faccio disegni. La pittura è una fatica, il disegno è una fatica. Ma che pochi conoscono, o comprendono. Non parlo del travaglio di ogni giorno, della maledizione di un cartellino e di orari codificati. Quella che intendo io è una fatica diversa, più lenta, molto più lenta. Perenne. Che accompagna ogni gesto, ogni immagine, ogni pensiero. Fare pittura è una fatica secolare.
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Anna Comino: Sindoni Quotidiane prende in considerazione una decina d'anni della tua produzione artistica. Perché sindoni e perché quotidiane?
Maria Cristina Galli: La sindone è simbolo per eccellenza del calco, dell'impronta, dell'oggetto che conserva la traccia, nello specifico di memoria storica. Ho spogliato questo concetto di tutte le valenze mistiche e religiose e ho cercato di tradurre a livello segnico il suo portato storico. Quotidiano perché mi interessa quella dimensione di lavoro giornaliero, di impegno costante e di dialogo quotidiano tra le esperienze legate alla vita reale e alla ricerca artistica.
Dalle tue opere emerge un lento lavoro di stratificazione.
È vero: quello che voglio trasmettere è la rappresentazione visiva della sovrapposizione continua e del deposito del tempo.
Come nella preparazione di una tela: prima c'è l'imprimitura, poi la stesura del colore, le velature...
Esatto. Impiego molto tempo per realizzare un lavoro, proprio perché non tutto è stabilito dall'inizio. Sperimentazione e anche casualità hanno un ruolo fondamentale nel mio fare. E poi ci sono i tempi d'attesa, di interscambio tra me e l'opera, fino al momento in cui si raggiunge la totale autonomia e indipendenza e alle parole si sostituiscono silenzi carichi di significato.
Ricorrendo a supporti che portano già delle tracce, cioè una sedimentazione in atto da tempo e non riconducibile a te, è corretto parlare di primo grado di stratificazione dell'opera?
Tele usate, rovinate, carte vecchie sono materiali molto stimolanti, che mi costringono ad adeguarmi a loro, a percorrere una strada che è già stata iniziata. Poi preferisco la carta perché assorbe molto il colore e fa corpo con la pittura, mentre la tela rimane supporto nella stesura dei pigmenti.
È qui che comincia il tuo lavoro di stratificazione "esterno" che va ad aggiungersi a quello "interno" proprio della materia prima che hai deciso di utilizzare?
Comincio a lavorare su questi materiali applicando una sovrapposizione di percezioni. Il mio immaginario riceve stimoli principalmente dalla parola scritta: ciò che leggo e mi colpisce viene visualizzato e tradotto nell'opera a livello grafico. In questo modo stratificazione interna ed esterna forniscono un doppio livello di lettura.
La parola nel tuo lavoro compare con il suo valore denotativo o connotativo?
Sicuramente connotativo. La suggestione emotiva che la parola genera a livello percettivo nel lettore, che poi sarei io, è ciò che ricerco, proprio perché i valori connotativi della parola riguardano la sfera soggettiva, intrecciandosi strettamente con le associazioni mentali che ognuno di noi costruisce.
Come scegli il codice con cui tradurre queste suggestioni?
Il segno grafico, la scrittura, è il codice. Il significato del testo ha importanza per me nel momento della lettura, ma non mi curo che risulti comprensibile una volta tradotto in segno. Anzi, spesso ricorro volontariamente ad errori di trascrizione, di sintassi, ma la cosa non è dichiarata affinché si crei una complicità solo mia con il testo.
Mi viene in mente Glosse senza codice, un tuo lavoro del 2003. Ponendo anche di riuscire a decifrare la scrittura, rimane l'impossibilità di capire note riferite ad un testo mancante.
Questo perché il mio interesse per la parola scritta è incentrato sulla sua rappresentazione grafica. Per me una parola conta quanto un segno, un colore: è mezzo d'espressione.
Nel caso di oggetti di recupero, gli objects trouvés, essi entrano con la loro tridimensionalità nella tua opera, dopo essere stati spogliati del loro vissuto.
Il mio utilizzo dell'oggetto non è certo assimilabile al ready made duchampiano. La presenza fisica dell'oggetto mi attrae per il suo portato "storico". Come la sindone è un simbolo della memoria, indipendentemente dalle implicazioni religiose, così l'oggetto porta tracce di chi l'ha posseduto, amato, utilizzato e infine anche scartato. È come se l'anima dell'oggetto, per entrare nella mia opera, fosse chiamata a nuova vita. È ovvio che, per fare ciò, lo decontestualizzo, ma solo questo, non ne snaturo l'essenza con un'operazione meramente concettuale.
Qual è lo scopo ultimo della tua opera?
Raggiungere la semplicità assoluta. Il che è difficilissimo.
Se si può fare un paragone con la scultura tradizionalmente intesa, ti senti più vicina ad un modo di lavorare "per via di porre" o "per forza di levare"?
Sicuramente al levare: il mio è un lavoro teso a togliere. Dopo una prima fase di accumulo, inizio a svuotare, a togliere il di più. Vorrei raggiungere l'essenzialità totale. Proprio come Licini, che alla fine ha trovato questo segno lirico, o Rothko che ha pulito tutto nel tentativo di rendere assoluta la pittura.
Il che significa che il percorso di genesi dell'opera non è lineare, ma soggetto a cadute, a ripensamenti?
La sperimentazione ha un ruolo portante nella mia opera. Le scoperte, molte delle quali accidentali, sono talmente piccole da risultare quasi insignificanti. Esse entrano a far parte del mio bagaglio di esperienze, per non uscirne mai più. Ho dedicato un'opera a questo travaglio interiore provocato dall'acquisizione del nuovo, dallo stupore della scoperta: si intitola L'arte è un mestiere piccolo. E la consapevolezza della conquista ti concede la libertà di scegliere come utilizzarla, al limite anche di privartene.
Anche se tu punti alla semplicità assoluta, molte delle tue opere presentano preziosismi calligrafici minuziosi. Come riesci a coniugare le due cose?
Quello che chiami preziosismo in realtà è un interesse per il dettaglio. La semplicità generale del lavoro consente di registrare il dettaglio solo dopo un'accurata visione. E a me piace questo lento scoprire, questo riportare alla superficie ciò che in realtà potrebbe restare seppellito nell'opera.
Un discorso analogo lo si può fare per le fotografie che compaiono nella monografia a te dedicata. Anche con quelle volevi evidenziare il dettaglio?
Sì. Solo che in questo caso gli ingrandimenti così mirati non servono tanto alla lettura dell'opera, quanto all'esemplificare del mio modo di guardare e di rapportarmi alle cose. Sono proprio io. Sfogliando il libro, mi sento soddisfatta perché mi rendo conto che il messaggio arriva.
Alla pubblicazione del libro seguirà una mostra?
Lavorare al libro è stato molto stimolante: mi è servito per riflettere sul mio lavoro precedente e per elaborare nuove soluzioni. Questa dimensione di ricerca sarà oggetto di una mostra alla galleria Spaziotemporaneo di Milano, e spunto per una serie di progetti ancora in via di definizione."
(Anna Comino, Intervista 9 ottobre 2007, SullArte.it)
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Dalla chitarra suoni come lamenti. Per ogni nota, dolore, pena rabbia. Quando suona John Lee tutto si ferma. Si, il silenzio che si sente quando John Lee canta un blues è religioso. Un silenzio denso come il carcere dell’anima. Non pensiate che sia paradossale se qualcuno vi dice che la musica si fa con il silenzio.
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Guardo il mio studio. Il suo caos. Il suo luridume appiccicato ai vetri, al pavimento, alle pareti cariche di fogli appesi alle puntine, pezzi di tela e ferro sparpagliati un po’ dovunque, mozziconi di sigaretta, libri consumati e sporchi di colore. L’odore della vernice e dei colori è a volte così forte che mi ubriaca, mi inebria, mi riempie di una gioia inconsulta, autentica. “…questo posto domani lo ripulisco…”, ma so già che rimanderò il problema. Mi piace, in fondo, questo disordine che qualcuno ha definito esistenziale, fa parte di me, è me.
La città è fuori, col suo brulichìo insensato. Il mio studio è la città intera.
(…) Passeggio per le vie del mio eremo, pieno ormai di promesse mancate, attaccate ai muri accanto e dentro i disegni, penso ai miei misfatti, al frammento di una preghiera infantile. Tutti i posti tacciono, ma questo posto appartiene a me. In questa città privata io conosco tutti i nomi delle cose, delle strade, delle piazze grandi come un brandello di carta, tutti i passi dei miei sogni, della mia immaginazione. Conosco il loro tempo, imparo il mio.
La desolazione di una città crudele, di un mondo sempre e comunque provinciale, dove tutti ti coprono di fango, dove tutti ti sorridono senza vederti…tu abbassi gli occhi sul tuo lavoro, lo tieni lontano dalla miseria, punti lo sguardo in modo leggero, ma inequivocabile, altrove. La luce si dissolve, si sgretola, la musica spezza loro il cuore e tu li hai sconfitti, per sempre.
Io sono la donna delle strade che non portano da nessuna parte. Sono l’innamorata di orizzonti che non raggiungo mai. Sono colei che non chiuderà mai tutte le porte. Sono la donna del silenzio, del freddo, dei serpenti addormentati. Sono colei che desidera. Il desiderio è nel fare e non si separa mai da esso, risorge indenne e si rilancia in ciò che conferisce al desiderio la sua capacità di resistenza: la mancanza. Nella mancanza è la gloria che ho sempre amato, che ho sempre tirato fuori dal suo nascondiglio, dietro alla mancanza c’è la mia voce. L’anima che ho e l’anima che non ho. Non si fa pittura per sentirsi dare dell’artista. Quella che generalmente la gente accetta perché inventata, è la realtà più vera di tutte, la realtà più vera del vero. La realtà di un’opera. (…)
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La pittura è il vero luogo d’incontro tra la solitudine e la quotidianità metropolitana. È dove ci si scambiano domande e risposte, dove si crede in qualcosa che ancora non esiste, in cui si costruisce con una serie di strumenti inventati il proprio poter-esserci. Questo è il posto in cui sono stata, in cui sono, dove ciò che è passato è mio. Dove ciò che è possibile è di tutto e di tutti. Ma mi appartiene. È in ogni respiro, in ogni sensazione, in ogni gesto che si deposita lento, furioso, disperato, cosciente sulla carta morbida, paziente. Sul ferro aspro, vivo. Sulla cera profumata, calda.
La vita è lì che aspetta. I volti, gli odori, il traffico, la quiete della sera, lo sporco, le luci, il grigio, le frenesie e le indifferenze, il fumo di una sigaretta, le sagome degli alberi e delle biciclette, gli spigoli dei muri, i cani che giocano, le note di un violino lontano, per caso… Lo spazio che è dentro e fuori di me si fa indefinito e assume il colore di una notte come questa, una come tante.
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L’altra notte sognavo. Sognavo una grande orchestra che eseguiva per me una sinfonia di Beethoven. La Nona. La mia preferita. La forza della sua musica mi travolgeva e non avevo orecchi che per quegli accordi sublimi che innalzano la condizione umana. L’esecuzione della sinfonia era tanto perfetta, tanto sentita, tanto coinvolgente, tanto potente nel suo insieme di note, da risultare più reale della stessa realtà. E mi restava dentro con la sua incredibile magia. Né Toscanini, né Bruno Walther, né Herbert von Karajan avrebbero mai avuto il talento sufficiente per dirigere così la nona sinfonia. Ma di una cosa ero sicura: chi la stava eseguendo aveva preso le doti migliori di tutti. Ho sempre pensato che ognuno di noi ha una propria musica nell’anima. Una musica personale, privata, confidenziale, che non è quella dei battiti del cuore, ma del temperamento del cuore. E il mio, modestamente, è un cuore beethoveniano.
Ci sono giornate come questa, fatte di gesti sempre ripetuti e sempre uguali, giornate cosiddette reali, che mi sembrano in realtà un incubo, che toglie ogni significato ai miei sensi. No. Non a tutti i sensi. A tutti meno uno. Perché il mio udito continua a registrare la vibrazione austera della sinfonia. Ci sono notti in cui il labirinto in cui precipita la nostra voce assume il rigore del nostro silenzio. E diventa una musica nuova, che dobbiamo imparare ad ascoltare.
E proprio adesso il coro inizia a intonare l’Inno alla Gioia, ed è come se non l’avessi mai sentito prima. A un tratto la sinfonia finisce, ma, come accade per le opere d’arte, il suo incantesimo si prolunga in un’eco lontana, un ritornello dolce, come le schegge di un sogno che tarda a dissolversi…
A volte le parole non servono a niente. Io le ho ascoltate, lette, scritte tante volte. Ma quando tutte le parole, assolutamente tutte, dicono le stesse cose, non servono più. Né a chi le dice, né a chi le deve ascoltare. Ci sono cose che vanno oltre le parole. Accarezzare un sogno e fare di esso la propria vita, inseguire il mistero di un amore per un lavoro che è una scelta quotidiana, precisa, ma che non conosciamo mai e che ancora non ci conosce, perché diventi il riflesso del nostro sguardo.
Imparare a credere nell’incredibile. Suonare, in punta di dita, il tempo del possibile. Renderlo udibile, senza parole, per chiunque abbia voglia di sentire. Il segreto per avere un orecchio musicale è riuscire a tacere.
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Neve.
Meno dodici. Di giorno, nel momento più caldo, con il sole che taglia le ombre sulla montagna in modo netto, assoluto, meno sei.
Aria tersa, buonissima. Se si potesse mangiare, bere, leccare quest’aria, nessun cuoco al mondo avrebbe più speranza.
Nove metri cubi di bianco da scolpire in tre giorni. Con questo freddo, con i piedi bagnati e le mani intorpidite, con un’accetta un martello una paletta, filo d’acciaio e seghe di ogni sorta, pezzi di ferro e muscoli. Una fatica improponibile, una sfida. Bella.
Ma io sto bene perché sono in montagna. In alto, dove si respira aria pulita, dove la natura è un po’ più forte di tutto il resto, e le basta starsene là, davanti agli occhi, per dimostrarlo. Non occorre altro, a chi sa di essere superiore, che esserci. Semplicemente.
Adesso sono stanca. Ho i polsi dolenti, le dita delle mani dure come bacchette, le spalle irrigidite; è dalle nove del mattino che tento di dare una forma, la mia forma, quella che ho dentro la testa, a questo cubo di neve ghiacciata. È difficile, più di quanto immaginassi, sembra di scolpire pietra. Solo che, se non fai attenzione, tutte le briciole che riesci a levare dalla massa, si riattaccano alla struttura ghiacciando ancora una volta, costringendoti a un doppio lavoro. Per cui devi sottrarre materia e buttarla via subito, toglierla dai piedi. Devi saper pulire. Devi procedere con ordine.
Io sto cercando di recuperare un po’ di me stessa.
Si evade da tante cose, da mille piccole, ostinate, crudeli prigioni quotidiane. Gabbie d’amore che sono nidi, che sono case, che sono voci e odori e sapori, che sono costruite sopra l’anima e che l’anima te la stracciano, appena te ne allontani.
Ci sono sentimenti lievi lievi, come neve che scivola giù dal cielo, che si posano sul cuore e lo proteggono per un poco, soffici e morbidi come un’illusione. Ché appena la vita scuote l’anima, si sbriciolano e svaporano lasciando tutto allo scoperto, col tremore di un istante.
Ma quello che ti segna sono le passioni dure come questi blocchi. Uguali molecole, differente consistenza. Neve con cui combatti, con cui ti misuri, col cuore ma anche con tutto il tuo corpo, con la testa e con i muscoli. Neve che fa male, che devi abbracciare ma anche colpire, che devi accarezzare, spezzare, modellare, ascoltare, capire, che ti può arrivare addosso come un sasso, che ti si infila dappertutto, che ti ghiaccia le mani e i piedi, che ti sembra impossibile portare con te nel raggiungere un’idea. Hai freddo ovunque, hai paura di non farcela. Maledici il momento in cui hai accettato questa sfida, un’impresa che supera ogni aspettativa. Metti a dormire il tuo corpo dolente e continui a scavare nel sonno. Continui a scavare anche il giorno dopo, fino a sera, fino a che fa buio, e comincia a piacerti da impazzire anche se vorresti piangere. Ti piace perché ci sei interamente, senza equivoci, senza bugie. Ci sei con tutto l’amore che sai. Che ti fa dire basta ma continui lo stesso, con l’ostinazione che ripesca le forze che neppure pensavi di avere.
Riconosci la lotta, riconosci i tuoi limiti, riconosci il privilegio di sentire così forte.
Quando tutto finisce, hai solo voglia di cominciare daccapo.
(Maria Cristina Galli)